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ToggleL'occupazione femminile durante la pandemia, tra rischio sanitario, conflitto vita lavoro e precarietà strutturale.
Mentre le donne sembrano essere più resistenti degli uomini al COVID-19 in termini di risultati di salute, anche quando più esposte, non è così quando si tratta delle ricadute economiche e sociali. Le misure adottate dal governo per controllare la diffusione del virus stanno esacerbando le divisioni di genere in termini di disoccupazione, lavoro domestico e sicurezza finanziaria, il tutto a svantaggio delle donne. Nel frattempo, il conflitto tra vita e lavoro si sta intensificando poiché le persone lavorano da casa, con le madri di bambini piccoli che spesso sopportano il peso maggiore dell’impatto.
Partendo già da un dato sull’occupazione femminile storicamente particolarmente sfavorevole, il peggiore in Europa, gli ultimi dati Istat ci dicono che a dicembre 2020 tornano a calare gli occupati e si registra un incremento dei disoccupati e degli inattivi.
In particolare, se nel secondo trimestre 2020 si registrava una perdita di 407.000 posti di lavoro tra le donne, contro 371.000 tra gli uomini, nel solo mese di dicembre delle 101.000 perdite di posti di lavoro, 99.000 sono femminili. E concentrate tra lavoratrici autonome e precarie.
SHE-CESSION. LA CRISI ECONOMICA COVID COLPISCE LE DONNE
L’attuale crisi dovuta alla pandemia è definita she-cession in quanto, a differenza della crisi del 2008 che colpì in modo più incisivo l’occupazione maschile, l’incidenza maggiore è sul lavoro femminile e non solo in termini di perdita di posti di lavoro.
Le donne hanno subito un maggior rischio da contagio in quanto molti dei settori «essenziali» in cui si è continuato a lavorare sono a prevalenza femminile e contemporaneamente sono servizi in cui era già presente una larga percentuale di lavoro precario (somministrazione, autonomo anche occasionale), percentuale che è aumentata nel corso della pandemia.
Nella sanità e nei servizi sociali due terzi del personale è composto da donne, ma questo divario è presente anche nella vendita al dettaglio (pensiamo ai supermercati), nei call center, nelle attività di pulizia.
Dall’altro lato, le donne sono più presenti in quei settori ritenuti «non essenziali» e fermati dal lockdown che ora affrontano una contrazione drammatica: turismo, ristorazione e in generale i servizi (dove è femminile l’84% della forza lavoro). E anche in questo caso la percentuale di lavoro precario di vario genere è molto alta. Ed è un dato di fatto che la perdita di occupazione femminile sia superiore.
Di fatto l’emergenza pandemica ha amplificato il divario tra occupazione femminile e maschile.
Oltre ai settori maggiormente colpiti dalla crisi, a prevalente occupazione femminile, c’è anche un altro aspetto, e riguarda la forma contrattuale. Mentre il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione hanno salvaguardato, per ora, il lavoro regolare a tempo indeterminato, sono stati tagliati i posti di lavoro di tutte le altre tipologie: quelli a termine che non sono stati rinnovati, i collaboratori e le molteplici forme del lavoro non-standard, fino al lavoro nero. Sempre secondo i dati Istat, il tasso di occupazione delle donne giovani, trai 15 e i 34 anni, è sceso di 4,3 punti percentuali: in quella fascia di età è adesso occupata meno di una donna su 3 (e questo tasso è calcolato sulle giovani donne che non stanno studiando, e che cercano lavoro).
LO SMART WORKING DURANTE LA PANDEMIA
Si arriva poi al paradosso quando si parla di ricorso allo smart working, se nel 2019 la percentuale di uomini e donne che facevano ricorso alla modalità di lavoro agile era simile, con la pandemia, «l’incremento dello smart working per le donne è stato di 15,4 punti percentuali (al 16,9 per cento), il 4,1 punti percentuali in più degli uomini (al 12,8 per cento)». Per le donne occupate in coppia con almeno un figlio sotto i 14 anni, la percentuale di lavoro a distanza è arrivata al 26,3%.
Chi ha mantenuto il lavoro, e ha avuto la possibilità di svolgerlo in condizioni non rischiose, da casa, si è dovuta sobbarcare un carico di lavoro di cura che – partendo già da livelli più elevati rispetto agli altri paesi europei – è cresciuto, poiché, in caso di presenza di figli minori, si è allargato a comprendere l’assistenza per le attività scolastiche a distanza.
In teoria, la possibile presenza di entrambi i genitori a casa avrebbe potuto anche avere un effetto positivo sul gap di genere nel lavoro domestico, chiamando i maschi a un maggiore contributo. Ma al momento lo smart working, non regolamentato, in un periodo di distacco sociale e isolamento si sta rivelando gravoso per molte madri lavoratrici poiché si destreggiano tra lavoro, scuola e assistenza, il tutto nella stessa tasca di spazio e tempo.
OCCUPAZIONE FEMMINILE: EMERGENZA NAZIONALE
E’ evidente che l’occupazione femminile, in un mercato del lavoro precario e frammentato, è un’emergenza nazionale. E la marginalizzazione di metà del mondo del lavoro è un problema democratico. In questo momento sul tavolo c’è un’occasione senza precedenti: il Next Generation Eu. Si tratta però di cambiare paradigma passando dal produrre e dal consumo alla cura come punto di vista da cui partire.
Next Generation EU: un’occasione da cogliere
L’Europa vincola il 57% delle Risorse del Ngeu per la predisposizione dei Piani nazionali, a digitale e green. Basta pensare a cosa significa transizione energetica e sostenibilità ambientale osservata dal punto di vista della “cura” dell’ambiente, del territorio, delle città. E allora le infrastrutture da creare sono quelle materiali e quelle sociali, incrementando asili nido e tutti i servizi alla persona a cominciare dal welfare di prossimità.
E se secondo Banca d’Italia l’aumento dell’occupazione femminile porterebbe con se, oltre a tutto il resto, un aumento di 7 punti di Pil, visto che i punti persi nel 2020 si attesteranno attorno a 8,8, allora non sarebbe il caso di investirci? Ma non è solo questione di economia, si tratta di benessere sociale e di democrazia.